Friday, November 10, 2006
"Le figurine mancanti del 1978"

Anno 1978. Due attori sulla scena, Il bigio Vincenzo Occhionero e lo pseudo bambino Dario Aggioli si impegnano a farci vivere quell’anno, il primo facendocelo assaporare storicamente per poi arrivare alla dittatura in Argentina; il secondo ci racconta il primo mondiale a colori. Una contrapposizione cromatica, bianco e nero per la cronaca e colori, tutti, per l’esposizione calcistica; questo è il presupposto registico su cui dovrebbe reggersi lo spettacolo.
L’improvvisazione è uno dei principi fondanti della poetica di Teatro Forsennato. Causa che appoggio in pieno, avendola sostenuta in prima persona fino a pochi anni fa. Sono fermamente convinta che la spontaneità è una valida modalità di creazione, che dà una bellissima freschezza ai prodotti e che, se si verificano le migliori condizioni, fa divertire in eguale misura, pubblico e attore; ma non può supportare qualunque genere di spettacolo. Funziona sicuramente per ciò che riguarda semplici intrecci, ma uno spettacolo “inchiesta” che si fa carico di sollevare gravi questioni, necessita di una trattazione che va ben oltre ciò che ho visto nelle “Figurine mancanti del 1978”.
Non vivo il dramma delle madri a Plaza de Mayo come non sento l’orrore di un trentenne che si scopre figlio “adottivo” dei carnefici dei suoi veri genitori e non provo una rabbia atroce per le esecuzioni sommarie. Non solo, finito lo spettacolo ricordo a malapena chi lo ha vinto quel Mondiale!
Il tutto è gettato là. Mi si racconta l’indifferenza che ha caratterizzato il mondo di fronte ai ‘giochi di prestigio’ della dittatura argentina e rimango a mia volta indifferente. Se avesse voluto essere semplice intrattenimento ci avrebbe raccontato la storia di due innamorati, e saremmo usciti da teatro tutti felici e contenti! Invece io sono uscita annoiata e senza nuovi elementi di riflessione. Se si scomodano determinati argomenti gli si deve dare lo spazio e l’intensità che meritano, se no, si lasciano nel loro oblio.
Non sto chiedendo ad uno spettacolo teatrale di colmare le mie lacune storiche e calcistiche, gli sto muovendo una semplice accusa: la superficialità. Ammesso e non concesso che tale genericità di trattazione sia una cifra stilistica, non posso e non voglio credere che sia lo stesso per le emozioni evocate e per la resa del prodotto finale. E’ necessario ricercare la perfezione in un prodotto artistico, e questo ha bisogno di moltissimo lavoro, a maggior ragione se non ci si affida ad un testo scritto. Purtroppo io, non ho visto due attori respirare insieme e non li ho visti forti e sicuri di poter attingere ad un ricco bagaglio formato in prova; tutto ciò era evidente dal loro stato emozionale, dall’ansia di lasciare dei vuoti e dalla ripetitività delle gag.
Bisognerebbe aprire troppe questioni per commentare questo spettacolo.
Quella sul metateatro che forse rompe la tensione e l’incanto; sull’esigenza di ritmo; sull’indispensabilità di un climax; sul fatto che il pubblico ha bisogno di ridere o di piangere o di indignarsi, di pensare o non pensare ma di emozionarsi…
Sono sicuramente molto presuntuosa e inclemente ma sono altrettanto stanca di ricercare sempre le attenuanti del caso e sono arrabbiata con lo svilimento dell’arte teatrale. Che non si deve scambiare per ciò che non è. E vero, il teatro risponde in primo luogo alle esigenze edonistiche di chi lo pratica, ma troppo spesso questo diventa il fine ultimo, incurante della validità dei mezzi con cui lo raggiunge.


 
posted by gio' at 3:48 PM | Permalink |


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