Friday, May 25, 2007
Il 'Sogno' del Teatro Ateneo


Studio e messa in scena del
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

Mi vedo costretta a premettere delle cose.
Questa non è una recensione, è semplicemente un flusso di pensieri idee fastidi e ‘illuminazioni’ relativi all’esperienza che io ho vissuto in tutta la sua interezza, dalle 20, 50 alle 01,00 circa, della serata tra il 24 e il 25 maggio 2007.

Quello che a mio avviso doveva essere la presentazione di un lavoro dignitoso e prezioso diventa sfoggio e orgoglio di ‘torbidi’ accademici che promuovono in gran pompa l’evento e come al loro solito si accaparrano meriti, in realtà letteralmente acquistati con i soldi di noi contribuenti. Ma del resto, che dobbiamo fare? Siamo semplici spettatori oggi come ieri di manovre che vediamo ma non ci è dato di capire, se così vogliamo dire.
Da una parte sono felice di non essere stata presente alla prima, in quanto mi sono risparmiata un bel po’ di nervosismo… lo posso supporre da quello che hanno raggiunto solo le mie orecchie. Comunque.

Subito dopo aver ritirato il mio biglietto grazie al gentile interessamento del pur sempre valido Massimiliano Maria Frascà (da notare le comunanze fonetiche col nome del Grandissimo Volontè) entro e raggiungo il mio posto. La scena è agghindata ‘alla Brook’ e questo già solletica il mio fastidio.
Attendo e attenta ausculto la partenza…
Un vegliardo si palesa… (per un attimo mi è sembrato di essere alla prima di Memorie di Adriano all’Argentina… Ma vi assicuro che il pro-rettore è capace di deliziarci assai dippiù che Giorgione)
I vegliardi nelle parti di Egeo e Teseo spiccano oltre che per l’età e per l’ingiustificata presenza anche e soprattutto per il loro fare e stare sulla scena come è consono al dopolavoro o la parrocchia se preferite. Il primo, alla storia Piero Marietti, il secondo nella parte di Egeo Boh? In quanto, la brochure lo denota come Bruce Myers ma posso affermare con estrema certezza che non era affatto lui.

Una piccola digressione sul ‘lavoro alla Brook’.
Almeno, quello che la mia esperienza mi ha insegnato, è che il Loro è un attento lavoro sul testo, il quale parla e dice tutto ciò che in scena dovrà essere. Le parole, non sono poi così ambigue, il loro posizionarsi all’interno del periodo insieme alla punteggiatura, narra tutto ciò di cui la messa in scena necessita.
Il lavoro con gli attori è, direi volto a far affiorare le peculiarità personali, ad uso e costume del testo. (pazientate, tornerò su questo punto)
In questo caso poi mi permetto di dire con ovvietà che a Shakespeare non gli dobbiamo insegnare proprio niente e che il ‘Sogno’ non può non girare.
La regia è… (lo posso dire?), NON E’! Nel senso che non interviene, almeno per ciò che io ho veduto, cura semplicemente i dettagli.
Ma veniamo allo specifico.
Lo spettacolo è mooooolto piacevole e estremamente divertente.
Mi soffermerò solo su alcune cose però:
La compagnia di Peter Quince, il quale entrando ha l’ardire di pronunciare una frase, indicando il palcoscenico, contenente le seguenti parole: “lo spazio vuoto”, suscitando in me, vergogna. Fortunati loro però, visto che la citazione è stata colta da me e poche altre persone in platea.
La Compagnia dei Cafoni intenta nella preparazione della piece da presentare al Duca ha lavorato su dei clichè che sicuramente piacciono ma li trovo molto più cabarettistici che non adatti a questo lavoro, trovo una paraculata quella di usare l’atteggiamento troisesco (passatemelo), in quanto, si, lo sappiamo funziona… E’ passabile solo in quanto impersonate una compagnia di buzzurri, e allora, ci può stare. Altrimenti…
Il mio plauso va a Marco Cipolla, ineccepibile e mirabile Bottom e alla magistrale interpretazione del Muro.
La corte di Titania (Le Fate), le ho trovate belle sinuose e insieme. Ho apprezzato in particolar modo Gheriglio (Gioia Salvatori) per il semplice motivo che essendo a conoscenza delle sue capacità mi ha inorgoglito scorgere la tanta strada fatta.
Puck (Giulia Pietrosanti), la quale, non ce l’ha detto, ma o è un vero folletto o è molto molto brava! Credo la seconda comunque. Tiene conserva e diluisce la sua bella energia per tutto lo spettacolo.
Oberon. I miei complimenti in questo caso vanno alla mamma di Vincenzo Manna, lo so, sono frivola ma ogni tanto ci vuole! Vojo di: Quanto è bello?!
Per contro ho da dire che per me Oberon è un’altra cosa e anche se riconosco a Vincenzo onorabilità e bravura, a me non m’è piaciuto.

Alla fine dello spettacolo io e la mia combriccola avendo diversi legami con diversi componenti della ‘compagnia’ decidiamo di cenare con loro. Dei pesci fuor d’acqua ovviamente!!!
Ma ciò è servito a confermarmi la mia idea del ‘lavoro alla Brook’ sugli attori.
Ho notato che le peculiarità disegnate sopra i singoli personaggi erano disposizioni personali dei singoli attori, accentuate per l’uso.
Forse tutto ciò è risultato molto più evidente a causa della durata lunga ma limitata, con cui hanno avuto modo di lavorare con Bruce Myers, o forse no, non so!? (avevo detto che ci sarei tornata).

In Quanto ho premesso, concludo pure:
Lo so, sono presuntuosa spocchiosa difficile e non mi sta mai bene niente.
Ma fin quando conserverò la facoltà di pensare, non mi priverò mai del piacere di dire.
Mi scuso con chi si è sentito offeso dalle mie parole e giustifico vigliaccamente il mio adire.
Inoltre, onestamente vi dico, che mi sono molto divertita sia ad assistere allo spettacolo ieri, ma anche e soprattutto a scrivere questo post oggi.
Vi amo tutti.
Gio-rgia
 
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Thursday, May 10, 2007
'Les Bonnes' di Jean Genet regia di Giuseppe Marini
Le serve, doppia emanazione di una stessa entità, entrano a sipario chiuso dai lati del boccascena. Le Attrici attraversano l’arco scenico, s’incontrano al centro e si specchiano una nell’altra, subito dopo si aprono e mostrando le spalle al pubblico illustrano le brevi note di regia che Genet ci ha voluto tramandare: “Sacri o no queste due serve sono dei mostri”.
Un omaggio alla carriera di due Pilastri del teatro italiano. La traduzione apposita di Franco Quadri, la scenografia di Chiti, la regia di Giuseppe Marini, tutto affinché la pièce acquisti una valenza simbolica delle esistenze professionali delle due interpreti.
Tratta da un fatto realmente accaduto, l’opera contestualmente a Genet è carica di tratti autobiografici, di sdegno per una società che lo rifiuta, di odio che sfocia dall’amore per una condizione negata che si manifesta attraverso un divario tra ciò che è e ciò che sembra, lasciando all’apparenza il compito di svelare il suo opposto e autenticarlo.
La scena è fastosamente vestita a lutto, presenti solo, un’enorme specchio deformante, un funereo letto e fiori, pendenti, sulle teste degli attanti.
“La recitazione deve essere furtiva…” La Valeri e La Guarnieri inscenano come ogni sera il loro masturbatorio rituale in assenza di Madame, scimmiottandola con una magistrale misura, talmente assorbite dall’erotico gioco da spingersi fin oltre il divertimento, rasentando la follia e sfiorando il terrore, finche lo scadere del tempo disponibile non coincide con il limite estremo del loro depravato gioco. La signora rientrerà a momenti. A marcare il termine è il rintocco di un’enorme sveglia che scende da una cantinella, seguiranno una chiave e la cornetta di un telefono, per sottolineare le esigenze del testo, grandi tanto quanto la ‘statura artistica’ delle interpreti.
Gli oggetti di scena sono assimilabili per qualità e fattezze alla disneyana “Alice nel paese delle meraviglie” così come i costumi delle Serve ricalcano in una versione cinerea il di Lei turchino; una favola nera.
L’ingresso di Madame è monumentale, la sua apparizione esplode in un fragoroso applauso; dal fondo del boccascena procede lenta una mastodontica struttura, il suo abito: un’enorme meringa tempestata di lumini accesi. Il suo avanzare accentua il divario tra le altezze mettendo sotto scacco Solange (Franca Valeri) mesta e immobile in proscenio. Il loro fermarsi sullo stesso piano prospettico rende perfettamente sulla scena l’essere assoluto e relativo di Madame, che si sostanzia e concretizza solo attraverso le dirette emanazioni di se (le serve/l’Altro).
Madame, nell’interpretazione della Mulas, si alterna di toni perentori, svenevoli, frivoli, lucidi, tanto più voluttuosi quanto più si addentra nella descrizione sadica e partecipata delle ipotetiche sofferenze patite dal Signore nella sua prigionia.
Rientra in scena Claire, per compiere attraverso la somministrazione di un avvelenato infuso, l’impresa che Solange ha fallito precedentemente: uccidere Madame.
Il sapore è quello della liturgia, il ‘SACRO GRAAL’ contenente il veleno, verrà soltanto sfiorato dalle mani di Madame, nel suo delirio di dolore e passioni per la ‘perdita’ dell’amato, finche un gesto e un oggetto non tradiranno le bonnes, portandole a confessare la buona nuova, l’avvenuto rilascio del Signore. Madame accorrerà tra le sue braccia e le due rimarranno di nuovo sole tra le loro reciproche e morbose puzze, accusandosi vicendevolmente d’inettitudine e disperate per l’imminente fine.
Il ‘SACRO GRAAL’ rimarrà in scena in primo piano, fin quando Claire non deciderà di liberarsi, liberando Solange e regalandole inoltre la notorietà per una falsa accusa di omicidio e berrà il veleno.
Lasciando finalmente il dovuto spazio, fin troppo, all’arte della Valeri, che si dilunga in un monologo, in cui Solange pregusta col suo vaneggiamento la fama. La sua recitazione è puntuale perfetta, fin troppo dentro il disegno di un’impropriamente detto personaggio. Per farla breve, avremmo preferito che prendesse lei in mano quel enorme emblema, il telefono, per deliziarci ancora e di nuovo con la Signora Cecioni.
Lo spettacolo seppur pieno di interessanti perle risulta noioso e freddo, divertente in maniera assolutamente discontinua, senza mostrare interesse per una riattualizzazione di senso dell’opera.
La regia di Marini minuziosamente attenta al gesto dell’attore ci regala una visione comunque piacevole.
Ciò che però è assai più piacevole è l’agghindo della vipperia presente alle prime del Teatro di Roma. Mi permetto di sottolineare stavolta, in assenza della beneamata, Rosanna Cancellieri Visone e Mamma-munita, la scarlatta presenza della tiratissima Marina Ripa Di Meana, con un perfetto pendant di cinta e caschetto.
 
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