Thursday, May 10, 2007
'Les Bonnes' di Jean Genet regia di Giuseppe Marini
Le serve, doppia emanazione di una stessa entità, entrano a sipario chiuso dai lati del boccascena. Le Attrici attraversano l’arco scenico, s’incontrano al centro e si specchiano una nell’altra, subito dopo si aprono e mostrando le spalle al pubblico illustrano le brevi note di regia che Genet ci ha voluto tramandare: “Sacri o no queste due serve sono dei mostri”.
Un omaggio alla carriera di due Pilastri del teatro italiano. La traduzione apposita di Franco Quadri, la scenografia di Chiti, la regia di Giuseppe Marini, tutto affinché la pièce acquisti una valenza simbolica delle esistenze professionali delle due interpreti.
Tratta da un fatto realmente accaduto, l’opera contestualmente a Genet è carica di tratti autobiografici, di sdegno per una società che lo rifiuta, di odio che sfocia dall’amore per una condizione negata che si manifesta attraverso un divario tra ciò che è e ciò che sembra, lasciando all’apparenza il compito di svelare il suo opposto e autenticarlo.
La scena è fastosamente vestita a lutto, presenti solo, un’enorme specchio deformante, un funereo letto e fiori, pendenti, sulle teste degli attanti.
“La recitazione deve essere furtiva…” La Valeri e La Guarnieri inscenano come ogni sera il loro masturbatorio rituale in assenza di Madame, scimmiottandola con una magistrale misura, talmente assorbite dall’erotico gioco da spingersi fin oltre il divertimento, rasentando la follia e sfiorando il terrore, finche lo scadere del tempo disponibile non coincide con il limite estremo del loro depravato gioco. La signora rientrerà a momenti. A marcare il termine è il rintocco di un’enorme sveglia che scende da una cantinella, seguiranno una chiave e la cornetta di un telefono, per sottolineare le esigenze del testo, grandi tanto quanto la ‘statura artistica’ delle interpreti.
Gli oggetti di scena sono assimilabili per qualità e fattezze alla disneyana “Alice nel paese delle meraviglie” così come i costumi delle Serve ricalcano in una versione cinerea il di Lei turchino; una favola nera.
L’ingresso di Madame è monumentale, la sua apparizione esplode in un fragoroso applauso; dal fondo del boccascena procede lenta una mastodontica struttura, il suo abito: un’enorme meringa tempestata di lumini accesi. Il suo avanzare accentua il divario tra le altezze mettendo sotto scacco Solange (Franca Valeri) mesta e immobile in proscenio. Il loro fermarsi sullo stesso piano prospettico rende perfettamente sulla scena l’essere assoluto e relativo di Madame, che si sostanzia e concretizza solo attraverso le dirette emanazioni di se (le serve/l’Altro).
Madame, nell’interpretazione della Mulas, si alterna di toni perentori, svenevoli, frivoli, lucidi, tanto più voluttuosi quanto più si addentra nella descrizione sadica e partecipata delle ipotetiche sofferenze patite dal Signore nella sua prigionia.
Rientra in scena Claire, per compiere attraverso la somministrazione di un avvelenato infuso, l’impresa che Solange ha fallito precedentemente: uccidere Madame.
Il sapore è quello della liturgia, il ‘SACRO GRAAL’ contenente il veleno, verrà soltanto sfiorato dalle mani di Madame, nel suo delirio di dolore e passioni per la ‘perdita’ dell’amato, finche un gesto e un oggetto non tradiranno le bonnes, portandole a confessare la buona nuova, l’avvenuto rilascio del Signore. Madame accorrerà tra le sue braccia e le due rimarranno di nuovo sole tra le loro reciproche e morbose puzze, accusandosi vicendevolmente d’inettitudine e disperate per l’imminente fine.
Il ‘SACRO GRAAL’ rimarrà in scena in primo piano, fin quando Claire non deciderà di liberarsi, liberando Solange e regalandole inoltre la notorietà per una falsa accusa di omicidio e berrà il veleno.
Lasciando finalmente il dovuto spazio, fin troppo, all’arte della Valeri, che si dilunga in un monologo, in cui Solange pregusta col suo vaneggiamento la fama. La sua recitazione è puntuale perfetta, fin troppo dentro il disegno di un’impropriamente detto personaggio. Per farla breve, avremmo preferito che prendesse lei in mano quel enorme emblema, il telefono, per deliziarci ancora e di nuovo con la Signora Cecioni.
Lo spettacolo seppur pieno di interessanti perle risulta noioso e freddo, divertente in maniera assolutamente discontinua, senza mostrare interesse per una riattualizzazione di senso dell’opera.
La regia di Marini minuziosamente attenta al gesto dell’attore ci regala una visione comunque piacevole.
Ciò che però è assai più piacevole è l’agghindo della vipperia presente alle prime del Teatro di Roma. Mi permetto di sottolineare stavolta, in assenza della beneamata, Rosanna Cancellieri Visone e Mamma-munita, la scarlatta presenza della tiratissima Marina Ripa Di Meana, con un perfetto pendant di cinta e caschetto.
 
posted by gio' at 5:47 PM | Permalink |


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